Sampdoria, addio a Trevor Francis: lo "striker" è morto di infarto, aveva 69 anni
di Stefano Rissetto
Vestì la maglia blucerchiata dal 1982 al 1986 collezionando 105 presenze e 29 gol
La Sampdoria e il calcio mondiale dicono addio a uno dei più grandi calciatori inglesi della storia: Trevor Francis, 69 anni, è infatti morto di infarto. A darne notizia il Mirror. Francis vestì la maglia della Sampdoria dal 1982 al 1986 collezionando 105 presenze complessive condite da 29 gol. La sua carriera fu costellata dagli infortuni, che non gli impedirono comunque di esprimere il suo talento puro e cristallino e di raggiungere grandi traguardi, come la conquista della Coppa dei Campioni con il Nottingham Forest.
Cadono le stelle una dopo l'altra, in questa blucerchiata notte di San Lorenzo che non sembra finire mai. Se ne va Trevor Francis, forse il più grande attaccante mai visto nella Sampdoria, che ai suoi tempi non era una squadra di calcio ma appunto un firmamento, un planetario però vero, disegnato sul serio nel cielo, e i suoi astri erano lontani. O brillavano soltanto di una nostalgia incagliata nel presente, come Alviero Chiorri; oppure filavano via come comete, che le nuvole non ci avevano lasciato vedere, e chissà quando sarebbero ripassate.
Avevamo sempre paura che si spezzasse, perché la bellezza è delicata, e Trevor Francis portava bellezza dovunque andasse. Non credevamo potesse arrivare qui e invece ce lo avevano portato davvero, sotto l'albero di quell'estate dell'Ottantadue. Era stato il regalo di Paolo Mantovani per quel Natale alla fine di luglio. Era il centravanti dell'Inghilterra, aveva vinto la Coppa dei Campioni, veniva in una neopromossa che per cinque lunghi anni aveva remato in serie B: averlo saputo allora che quella stessa Coppa dei Campioni il Doria a colori l'avrebbe sfiorata davvero, che in una decina d'anni avrebbe vinto quasi tutto, non ci si sarebbe creduto. Baronetto di Sua Maestà per meriti sportivi, timido e gentile, su un campo di calcio diventava un agente stile Bond: appariva dal nulla come il sorriso del gatto dello Cheshire, segnava col silenziatore, poi tornava nel niente fino al gol successivo.
Era un brasiliano nato per caso nell'isola della pioggia e del the, smisurato nel talento, quando indossò la maglia blucerchiata salì sul palco e cominciò a fare anche a Genova e in Italia i suoi giochi di prestigio, cambiava abito a tutto il teatro, tirava fuori cilindri dai conigli perché a fare il contrario erano bravi tutti, illuminava d'oro e di luce dovunque mettesse piede come Michael Jackson nel video di "Billie Jean", ed era infatti un ballerino di tip tap, a pensarci bene. Un artista.
Divampò a San Siro, in quel Duomo di cemento armato che prima hanno sfigurato e ora vorrebbero abbandonare, quasi la seconda casa della Sampdoria, che in quello stadio ci ha vissuto giorni e sere dei più belli. Era il penultimo giorno di estate dell'Ottantadue, il Doria ci aveva giocato in B poco più di un anno prima, all'indomani della primavera, e ci aveva vinto con un gol di Chiorri. Sembrava impossibile ripetersi, ma il domicilio di Francis era appunto l'impossibile, da fuori area firmò uno di quei suoi gol che segnava cadendo, come una marionetta dai fili recisi. E il Doria vinse, ma ad aspettare il Baronetto c'era l'Uomo di Ferro, il suo futuro commilitone Pietro il Grande: la settimana seguente si sfidarono, come tutti Trevor ebbe la peggio con Vierchowod, cominciava al Doria la sua carriera alla Kleiber.
Carlos Kleiber, ebreo di rito argentino quindi molteplice esule, è stato il massimo direttore d'orchestra di sempre, ma ha diretto pochissimo e inciso ancor meno. Credeva che la santità della musica andasse rispettata lasciandola sulla carta, senza disturbarla con la volgarità dell'esecuzione, in pubblico poi. Così Francis bruciava senza consumarsi, allodola ottobrina e compagno segreto, lo si aspettava ogni volta sapendo che il concerto sarebbe stato esiguo, poteva interrompersi per uno starnuto dalla platea o il lampo al magnesio di un fotografo, dagli spalti del vecchio stadio si tremava a ogni contrasto, bisognava riempirsi gli occhi di tutta quella luccicanza prima che si dileguasse ancora, perché tutta la musica tende al silenzio, lo contrasta come può, ma poi anche nelle onde hertziane comanda la legge della gravitazione universale.
E cosa dire del tempo trascorso a veder camminare le aquile? E perché il cuore, quello stesso cuore che a lui oggi ha detto basta, quel cuore che sta al buio tutta la vita senza mai vedere il sole che senza di lui però si spegne, oggi lacrima, se riporta a quell'inizio di estate del 1985, quando l'astronave finalmente partiva? Era ancora a San Siro e Trevor passava il pallone a sinistra, c'erano Souness e Salsano e indovinate chi spintonò via l'altro, per segnare lui. Poi il filamento di tungsteno che faceva brillare il Baronetto si fulminò un'altra volta, poche sere dopo era in tribuna a guardare un ragazzino di vent'anni con la testa piena di riccioli, a danzare come solo lui sembrava saper fare, trasformando in una foresta pietrificata la difesa campione del mondo. Era Gianluca Vialli, come Trevor un sole che splende per noi soltanto, come un diamante in mezzo al cuore. Visto dall'altra parte del pozzo di anni che sono passati, col cannocchiale rovesciato della memoria che si sfolla, quel gol che significava il quinto colore sulla maglia, la prima Coppa Italia, era un cambio della guardia tra i numeri 9 che ora sorvegliano, dalla loro inarrivabile assenza, dal loro lancinante paese d'ombre, il famedio doriano.
Almeno voi nell'universo, vien da dire oggi al ragazzo di allora, che ricorda un incontro lontano per una maglietta con la scritta "Trevor Walks On The Water" disegnata da Giulio "Dr Booga" Ravagni, e le emozioni di quegli anni ad ammirare le immagini della lanterna magica di un tempo, a dondolare insieme a una moltitudine su un'altalena sola, in un tempo così lontano che non sembra stato.
Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa. E hanno i capelli bianchi, ormai, quelli che possono rispondere all'interrogativo: chiedi chi era Trevor Francis. La risposta? Un fabbricante di arcobaleni, forse. Ma la sensazione, mentre fermi sulla banchina della stazione facciamo ciao con la mano guardando affacciati ai finestrini i volti che hanno rallegrato la nostra giovinezza, è che il lampionaio stia passando per tutte le stanze del castello, a spegnere una a una le luci, alla fine della festa, all'inizio della notte.
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