Paolo Lingua e “La cucina genovese ai tempi di Paganini”
di Giulia Cassini
Al Teatro della Gioventù in collaborazione con A Compagna per il Paganini Genova Festival
La cultura si specchia sulla tavola o meglio, si suol dire che passi proprio da lì. Dalle portate si può capire l’influsso, la raffinatezza, la tradizione in un Paese variegato anche nelle sue espressioni culinarie, tanto che non si può parlare di cucina italiana (unitaria, intesa come nazione), ma semmai di cucina in Italia, con tutte le sue declinazioni regionali e i suoi microcosmi. Fatta questa premessa con Roberto Iovino, presidente dell’associazione Amici di Paganini, all’incontro del 23 ottobre presso il Teatro della Gioventù il focus è partito proprio dalla cucina genovese all’epoca del grande virtuoso del violino.
Sono state riportate diverse testimonianze, tra cui le lettere inviate da Niccolò Paganini all’amico avvocato Luigi Guglielmo Germi con i sapori di sempre: il “buon” minestrone della mamma, i ravioli e la farinata. Paganini non è stato un grande gourmet, come l’amico Gioacchino Rossini, tuttavia è rimasto celebre per la ricetta sui ravioli scritta di suo pugno e conservata presso la Library del Congresso di Washington. In realtà come ha denotato Paolo Lingua nel suo ricco excursus storico l’epoca del genio del violino è stata foriera di grandi cambiamenti anche a tavola.
Sono gli anni, all’incirca il 1780, in cui Romanengo portava a Genova il gusto raffinato dei marron glacé francesi e tantissimi dolci rivisitati con le mandorle e frutti oleosi. E’l’epoca del trionfo del cioccolato, del caffè, dell’introduzione nelle ricette delle patate e, seppur modicamente, del pomodoro, ma è anche il periodo del boom dell’olio. Grande stupore dei presenti sulla sezione dedicata alla focaccia al formaggio, così amata negli anni paganiniani dal pubblico dell’opera che spesso vi votava la cena di mezzanotte, il cosiddetto “Dopoteatro”. Le prime fonti risalgono infatti al XVIII secolo.
“Nel periodo in cui cade la festività dei Defunti, era abitudine nella zona di Recco (costa ed entroterra) consumare le focaccette fritte confezionate con la farina, l’olio e impastando le formaggette fresche provenienti dagli alpeggi con il latte delle mucche che avevano brucato il primo fieno autunnale. Per questa raffinatezza erano considerate irripetibili”. Anche i nobili ne erano ghiotti, insieme ai “pansoti”, alle torte di verdura e al pesto con le noci. Ecco perché la focaccia di Recco è uno dei simboli dell’evoluzione dei tempi.
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