Sanremo: Artemisia all'Ariston e i Beatles sul tetto di Savile Row
di Stefano Rissetto
"Giuditta e Oloferne" al Festival si inserisce in una lunga storia di ibridazioni tra musica e storia dell'arte
"Giuditta e Oloferne" di Artemisia Gentileschi, capolavoro del Seicento pittorico italiano di un'artista controversa, che ha meritato di essere raggiunta dalla sua epoca per aver saputo anticiparla, compie un viaggio di secoli per arrivare "Lontano lontano", fino al palco dell'Ariston di Sanremo. L'iniziativa che fa della Giuditta di Artemisia la protagonista di una serata del Festival è stata anticipata a Telenord dalla parlamentare Ilaria Cavo e dalla coordinatrice cultura Regione Liguria Jessica Nicolini in un TGN Cultura ( https://telenord.it/tgn-cultura-ilaria-cavo-e-jessica-nicolini-67459/ )condotto dal nostro direttore Giampiero Timossi.
L'eroina biblica, soggetto del dipinto di Artemisia, ruba quindi la scena ai cantanti di Sanremo, inserendosi in un canone che segue altri esempi. Nel tempo che ha visto fiorire una nuova e purtroppo ultima canzone dei Beatles, "Now and Then", il pensiero associativo va inesorabile al concerto di addio dei Fab Four, tenuto a sorpresa sul tetto del palazzo della Apple Records al civico 3 di Savile Row a Londra. Erano loro l'opera d'arte, quel 30 gennaio 1969, John Paul Ringo e George, ma i policemen li interruppero, su chiamata dei vicini. Anche i Beatles, come Artemisia, avevano anticipato la loro epoca.
Quando Plinio il Vecchio vide la lava incandescente arrivare sempre più vicina, non avrebbe mai potuto immaginare che quasi un paio di millenni dopo, nel 1972, tra le rovine dissepolte di Pompei, altri quattro musici inglesi di nome David Gilmour, Nick Mason, Richard Wright e Roger Waters sarebbero scesi ad aggirarsi tra i fumi della solfatara di Pozzuoli, per poi suonare nell'anfiteatro della città tornata alla luce. "Pink Floyd at Pompeii" fu la prima incursione del gruppo nella storia dell'arte, prima della storica tappa nel canale della Giudecca, su una chiatta galleggiante nel bacino di San Marco a Venezia, per un altro concerto storico che era stato vissuto come una profanazione. Sull'unica piazza della città sorta dal mare sarebbe tornato, molti anni dopo nel deserto della pandemia, Adelmo Fornaciari in arte Zucchero, solo lui e la sua chitarra in una città spopolata per il confinamento in casa dei peraltro sempre più rari residenti, suonando "Il volo" mentre appunto un drone volava su di lui e su Venezia mai così lejana y sola.
Artemisia a Sanremo avrà la stessa valenza dirompente dell'Arte che si fa Storia nella solennità dei momenti. Quando il 9 novembre 1989 il presidente Egon Krenz diede ai cittadini della DDR il permesso di andare nella parte Ovest della città attraverso i varchi non più presidiati dai Vopos col fucile e dai cani lupo slovacchi, allevati apposta per addestrarli ad aggredire i fuggiaschi, Mstislav Rostropovic era negli Stati Uniti, si imbarcò sul primo aereo portando come bagaglio soltanto il suo Stradivari Duport fabbricato nel Settecento, arrivò davanti al Muro già ricoperto di scritte multicolori a spray, si fece portare una sedia e, davanti a centinaia di ragazzi che quel vecchio nemmeno lo conoscevano, eseguì la Suite n.1 per violoncello solo di Johann Sebastian Bach. Qualche anno prima Vladimir Horowitz, tra gli scricchiolii dell'Impero, era tornato a Mosca, da dove mancava da sessant'anni. Per colmare tutto quel silenzio, nel teatro del conservatorio davanti ai ritratti di Prokofiev, Skrijabin, Borodin e tutti i predecessori che lo ammirano assorti, scelse di colmare quella lontananza lunga quasi una vita rompendo quella vasta assenza con la Sonata in Si Minore di Domenico Scarlatti, napoletano vissuto a Madrid e oggi, al pari di Mozart, senza più nemmeno una tomba, perché tutta la musica tende al silenzio, scrisse Proust, come tutta la vita tende alla morte.
Ma l'arte salva il mondo. E il gesto di Giuditta eternato da Artemisia, tra le rovine del Novecento che ancora ingombrano l'orizzonte del Terzo Millenio, ha lo stesso senso di Wladislaw Szpilman che suona un preludio di Chopin mentre le bombe naziste hanno fatto di Varsavia un cimitero di vivi, il Pianista più famoso della storia del cinema eternato da Roman Polanski che dalla Polonia sarebbe andato in America per inscenare un teatro della crudeltà. Un ebreo come lui, ma nato negli States e cresciuto da famiglia di esuli ungheresi, sarebbe tornato in Europa alle radici del mito, nel cuore della classicità, al Teatro Greco di Taormina, per girare una commedia brillante partendo dall'Edipo Re di Sofocle. Il coro greco invoca Zeus e, poiché siamo in un film di Woody Allen, a rispondere è la segreteria telefonica.
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